I Paesi che oggi stanno attuando manovre economiche di rientro dai deficit hanno la possibilità di guardare al passato per trarne indicazioni su come meglio disegnarle. Ci sono tre lezioni che la storia recente ci insegna per quelle Nazioni come l'Italia che hanno ormai un rapporto tra spesa pubblica e Prodotto interno lordo (Pil) ben oltre il 40 per cento.
Primo: aggiustamenti dal lato della spesa strutturale (cioè non tagli una tantum ) sono gli unici che consentono una stabilizzazione e riduzioni durature del rapporto tra debito e Pil. Aumenti di imposte, invece, non fanno che rincorrere la spesa con i suoi incrementi automatici. Secondo: gli effetti recessivi di tagli alla spesa sono inferiori a quelli di aumenti di imposte. Terzo: le conseguenze negative sull'economia di riduzioni di spesa si possono contenere o persino evitare quasi del tutto con politiche strutturali di stimolo che accompagnino la manovra, dando così ai mercati un senso di fiducia sul futuro del bilancio pubblico.
Paesi come Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Portogallo hanno capito la lezione e si stanno muovendo faticosamente in quelle direzioni. In tutti questi Paesi sono in attuazione programmi che dovrebbero ridurre la spesa pubblica di parecchi punti di Pil nei prossimi anni. Certo, affronteranno un paio d'anni difficili ma il messaggio che stanno dando è di aver capito la gravità della situazione e di aver assimilato la lezione. Ne usciranno rafforzati. L'Italia no. Stiamo facendo esattamente l'opposto, ignorando tutto ciò che la storia ci insegna. La manovra è basata molto più su aumenti di imposta che su tagli di spesa veri e di riforme strutturali per la crescita non se ne vedono. L'elaborazione della manovra era dettata dal seguente obiettivo: come aumentare le tasse agli italiani minimizzando le perdite di voti. Quindi ha ragione il Fondo monetario internazionale a predire un effetto negativo sulla crescita di questa manovra perché anche il Fondo conosce bene le tre lezioni di cui sopra, anzi ha contribuito a insegnarcele. Ai mercati non basta solo che il bilancio sia in pareggio nel 2012 o 2013 in qualunque modo, ma che l'Italia dimostri di aver capito quelle lezioni.
Mi azzardo allora a fare una previsione, sperando di esser smentito dai fatti. Da oggi fino alle prossime elezioni si farà ben poco e la Bce continuerà a fornire la «morfina» (come giustamente l'ha definita Francesco Giavazzi domenica scorsa, 4 settembre, sul Corriere ) derivante dall'acquisto di titoli pubblici italiani. In qualche modo si toglierà temporaneamente il dolore al malato Italia, che penserà di essersi risanato. Illudere i malati non è sempre la strategia migliore.
Comunque, dopo le elezioni (chiunque vinca) ci sarà quella patrimoniale già criticata dal direttore del Corriere , Ferruccio de Bortoli. Ormai questa carta la invocano in tanti, da ex banchieri che pare si accingano ad entrare in politica, alla sinistra anche quella più moderata, senza parlare di quella più estrema; sicuramente anche nel centrodestra in molti ci stanno pensando. Una patrimoniale che abbia un minimo di successo nel ridurre il rapporto debito-Pil sarà un'altra mazzata per la crescita. Nel frattempo, preoccupandosi di come disegnare la patrimoniale, non si farà nulla sulla spesa che continuerà a viaggiare sempre più verso la metà del Pil. Anzi, la riduzione di crescita (cioè del denominatore) dei rapporti debito su Pil e spesa su Pil tenderà a fare aumentare i rapporti stessi. Tra quatto o cinque anni saremo da capo. Un debito su Pil di ben più del 100 per cento, dopo aver sprecato una patrimoniale, e ricominceremo con un altro contributo di solidarietà, un rinnovato impegno di lotta all'evasione, un aumento di Iva o magari, perché no, una seconda patrimoniale. E il ciclo ricomincia.
Alberto Alesina
Fonte > Corriere.it