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La festa di un popolo che crede nella pace
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Il sincero affetto per l'Italia, la paura della bomba atomica, l'incubo del terrorismo, e poi i cori dei giovani che con Peres non hanno smesso di sperare

Quando quel coro di bambini ha intonato le prime note del-l'Hatikva, l'inno israeliano, tutta "la Knesset si è alzata in piedi trattenendo la commozione. Sui volti di quei ragazzi si leggeva la speranza. Il futuro di Israele. E non è un caso se Shimon Peres ha voluto intitolare i festeggiamenti dei sessantanni dalla nascita dello stato d'Israele «Guardando al domani».

Il mio primo viaggio da parlamentare italiano a Gerusalemme si è diviso a metà appena mi sono seduto sul sedile posteriore di un taxi bianco fermo di fronte all'aeroporto Ben Gurion. Diviso tra gli incontri ufficiali e quelli con la gente comune.

All'incontro internazionale erano presenti i rappresentanti delle nazioni più importanti del pianeta. Nonostante l'atmosfera solenne, George W. Bush ha trovato il modo di scherzare con Ehud Olmert; Condoleezza Rice, sorridendo, ha stretto decine e decine di mani; alla chiusura dei festeggiamenti si sono mischiate figure come quelle di Mikhail Gorbaciov e Rupert Murdoc.

Nel portare a Peres il saluto del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ho ricevuto dai leaders presenti numerose attestazioni di amicizia e di riconoscenza per la ferma posizione dell'Italia nel difendere il diritto di Israele a vivere. Con orgoglio ho esposto il nostro tricolore e in molti mi hanno chiesto quando torneranno in visita Berlusconi e Fini.

«Guardando al domani» ho raccolto la simpatia e la curiosità per l'iniziativa dell'alzabandiera israeliana al Campidoglio, voluta dal neosindaco di Roma Alemanno e dall'ambasciatore israeliano Meir.

Ho rassicurato il Premio Nobel Elie Wiesel sulla volontà di realizzare il progetto del Museo della Shoà di Roma. Del resto la cerimonia al Campidoglio ha rappresentato l'ennesima tappa del lungo ma costante processo di evoluzione della nuova destra italiana. Una trasformazione che proprio in Israele ha avuto il suo significativo riconoscimento con la visita del Presidente Fini al mausoleo Yad Va-schem di Gerusalemme.

Durante il mio viaggio, mentre Israele festeggiava, sono continuate le minacce all'esistenza dello stato ebraico. Con i quotidiani attacchi missilistici di Hamas nel sud di Sderot e di Ashqelon. Con le dichiarazioni di guerra del presidente Ahmadinejad. Ma il terrorismo non ha cambiato l'animo degli israeliani né il carattere democratico di una nazione.

Tutta Israele è scesa in piazza in questi giorni per festeggiare. E la gente che incontravo nei bar, o mangiando una pita (pane arabo), mi rincuorava. Molti mi hanno ringraziato dimostrando sincero affetto per l'Italia. Sentono la vicinanza della nostra nazione come fossimo un Paese confinante. E chiedono la pace.

La chiedono mentre cammino per le strade di Kikai Zion. Mentre sono dentro quel taxi che corre verso Gerusalemme. Ognuno di loro cerca una soluzione al conflitto. Sono tormentati dall'Iran, dalla minaccia della bomba atomica. Ma guardano avanti.

Perché come recita il motto del convegno di Schimon Peres: «Impariamo dal passato, viviamo il presente, speriamo nel domani».

di Alessandro Ruben

Fonte >  Il Tempo (19 maggio)

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