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Il Terrore degli Emergenti
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Fino a pochi mesi fa l’Islanda era considerata un po’ come una piccola California europea, stante le differenze di clima e di dimensioni. Ogni impresa multinazionale voleva stabilire una filiale nel piccolo paese affacciato sul mar Glaciale Artico. La sua capitale a misura d’uomo Reykjavík era meta di summit internazionali e di incontri diplomatici ad alto livello.

Un regime fiscale molto favorevole come detto aveva attirato capitali stranieri in grande quantità rendendo il paese e le banche sempre più ricche. Un Pil di 12 miliardi di euro, con una crescita costante del 3,5- 4%, permetteva un  reddito procapite di 52.487 dollari, uno tra i più alti del pianeta. Il 99,9% delle’energia è fornita da fonti rinnovabili, rendendola autonoma anche da quel punto di vista. Insomma un vero e proprio paradiso, oggetto di reportage e studi sociologici per capire dove stava il segreto di tanto successo.

Poi in poche settimane come un fulmine a ciel sereno il piccolo paradiso si è rivelato per quello che era, un fragile castello di ghiaccio, sfaldatosi al primo caldo di stagione, per usare una metafora che ben si adatta al contesto islandese. Le sei principali banche del paese hanno praticamente insieme dichiarato bancarotta e sono state salvate con un piano del governo, supportato dagli aiuti russi e del Fondo monetario internazionale. La corona ha perso in poche sedute quasi un quinto del suo valore nei confronti del dollaro e oltre il 10% nei confronti dell’euro.

L’inflazione è volata ad oltre il 14%, rendendo la situazione economica ad un passo dal crack. Ma la domanda che occorre porsi a questo punto non è tanto del come è potuto succedere una simile situazione ma piuttosto del dove potrà succedere ancora, considerando che già Ungheria, Romania, Ucraina, Turchia, Filippine, Argentina e Cile hanno già chiesto sostanziosi aiuti al Fondo monetario internazionale per salvare il paese da un potenziale crack. Ma il timore che la crisi possa adesso arrivare fino a Cina ed India sta diventando sempre più pressante e preoccupante.

La Cina, infatti, è ormai il motore indissolubile della crescita mondiale, avendo sostituito da tempo la stanca locomotiva Usa, a cui questa crisi finanziaria sembra aver tolto definitivamente lo scettro. E’ per questo che le Borse stanno avvitandosi sempre più verso il basso e sembrano non riuscire a trovare una qualche via d’uscita ad un situazione che sembra volgere irrimediabilmente sempre più al peggio.

Qualcuno fa notare come la Corea, altro economia emergente della zona, starebbe da qualche tempo dando forti segnali di cedimento e questo sarebbe molto preoccupante perché il piccolo paese funge da sorta di cuscinetto a livello geopolitico ed economico fra i due giganti della zona, Cina e Giappone. Secondo molti esperti se cede l’economia coreano seguirà sicuramente quella Giapponese, e quindi via via quella delle cosiddette tigri del sud est asiatico, con Malesia e Vietnam in testa.

La scorsa settimana per la prima volta dopo molto tempo la banca centrale coreano ha abbassato i tassi, e molti osservatori hanno visto in questa mossa come la chiara dimostrazione di problemi di liquidità del sistema bancario coreano. Il won ha perso ben il 29% rispetto al dollaro da inizio anno e le autorità centrali hanno fatto sapere di essere pronti ad utilizzare 240 miliardi di dollari in riserve ufficiali per aiutare le proprie banche ad assicurarsi sufficiente liquidità di divisa straniera. D’altra parte se si guarda lo spread dell’Emerging Market Bond Index rispetto a quello dei paesi sviluppati che a fine 2006 era al 2% ad inizio Ottobre 2008 era schizzato ad oltre il 12%.

A pesare su tutto ciò secondo gli esperti contribuisce anche la politica monetaria tenuta questi anni dal Giappone, che ha favorito la speculazione sullo yen, tenuto basso per permettere alle esportazioni del paese di risollevare le sorti di un’economia da oltre un decennio in difficoltà. Ora con la crisi finanziaria gli speculatori che utilizzavano lo yen per il carry trade, pratica speculativa consistente nel prendere a prestito del denaro in paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di paesi con un rendimento maggiore, sono stati costretti a ricoprirsi permettendo alla moneta giapponese di rivalutarsi in maniera decisa, determinando uno stravolgimento della politica monetaria di tutta la zona asiatica.

Proprio per far fronte a queste difficoltà la scorsa settimana l’Asean (l'Associazione che raggruppa le nazioni del Sudest asiatico più Cina, Giappone e Corea) ha deciso di istituire un fondo da 80 miliardi di dollari. Ma anche i paesi che si affacciano sul Golfo, e che sono da sempre considerati al riparo da qualsiasi crisi grazie al potere dei petrodollari, sono segnalati in preoccupante affanno non solo per la discesa dei prezzi del greggio, ma anche per il rischio dell’esplosione di una bolla immobiliare.

Altro mercato assai in difficoltà è quello russo, dove la Borsa ha perso oltre il 60% da inizio anno del suo valore ed ha dovuto registrare alcune giornate di stop forzoso, per arginare un eccesso di ribasso delle quotazioni. Ma anche il Brasile che sembrava attraversato da un vero e proprio boom sta pagando la crisi dei paesi latino americani e  soprattutto le difficoltà del suo principale mercato di sbocco, che continuano ad essere gli Stati Uniti.

Questo quadro piuttosto preoccupante dovrebbe far riflettere per molte ragioni, prima fra tutte , come già detto, per il fatto che la crescita globale del 5% dello scorso anno si è verificato in gran parte grazie proprio ai pesi emergenti ( la Cina da sola ha contribuito per un 10%).Secondariamente in molti di questi Paesi la crescita è stata trainata dalle esportazioni e dunque ha generato straordinari surplus di bilancia commerciale e accumuli di riserve, in gran parte confluite a finanziare il deficit di risparmio, soprattutto americano.

A fine agosto 2008 il 46% dei titoli del Tesoro Usa detenuti da stranieri era nelle mani dei Paesi emergenti: un controvalore di 541 miliardi di dollari per la sola Cina (307 per la Gran Bretagna e 41 per la Germania, per avere un paragone). Infine c’è da sottolineare come la crescita delle economie in rapido sviluppo ha permesso una ricomposizione geografica della produzione globale di beni e servizi, con guadagni di efficienza per le imprese dei Paesi industrializzati ed anche una riduzione dei prezzi per i consumatori.

Ecco perché sono assai preoccupanti questi ripetuti scricchioli delle economie emergenti, che se non controllati per tempo potrebbero si portare al definitivo affossamento dell’economia globale.

Vincenzo Caccioppoli per EFFEDIEFFE.com


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