Il doppio paradosso della globalizzazione
La Stampa
04 Giugno 2008
Per la prima volta nella storia è apparso un sistema economico davvero globale, con prospettive di benessere finora inimmaginabili. Allo stesso tempo - paradossalmente - il processo di globalizzazione provoca un nazionalismo che minaccia la sua realizzazione completa.
La premessa di base della globalizzazione è che la competizione selezionerà i più efficienti, un processo che, per definizione, implica vincitori e vinti. Il perdente andrà a cercare sollievo nelle istituzioni politiche che gli sono familiari e non si placherà certo apprendendo che i benefici della crescita globale superano di gran lunga i costi. In più, per restare competitivi, molti Paesi sono obbligati a ridurre la legislazione sociale - un compito destinato a generare proteste interne. In periodi di difficoltà economiche, queste tendenze vengono amplificate.
Nei Paesi industrializzati, la globalizzazione ha un doppio impatto sulla politica interna: il paradosso che il benessere creato dalla maggior produttività si accompagna a un aumento della disoccupazione e la fuga dai lavori più umili, che vengono svolti da lavoratori stranieri. Risultato: uno scontro di culture e un nazionalismo che fa da zoccolo al protezionismo. Questa tendenza si manifesta anche all’interno dei settori produttivi del mondo industrializzato.
Le imprese transnazionali, connesse tra loro via Internet, operano sul mercato globale servendosi di staff che spesso hanno più durata e meno restrizioni di quelli al servizio dei governi. Le imprese che dipendono dall’economia nazionale generalmente non hanno le stesse opportunità. Nel complesso, impiegano la forza lavoro con le paghe più basse e le prospettive più magre. Tendono ad affidarsi a mercati più limitati e a processi politici nazionali. Le società transnazionali chiedono libertà di commercio e di movimento dei capitali; le società nazionali (e i sindacati) spingono per il protezionismo.
Le crisi economiche ovviamente amplificano queste tendenze. E il sistema finanziario globalizzato ha prodotto crisi periodiche prevedibili quasi quanto i picchi di crescita: in America Latina negli anni 80, in Messico nel 1984, in Asia nel 1997, in Russia nel 1998, negli Stati Uniti nel 2001 e di nuovo a partire dal 2007. Ogni crisi ha avuto una sua causa scatenante peculiare, ma tutte hanno due tratti comuni: una speculazione sregolata e una sottostima sistematica del rischio.
A ogni decennio il ruolo del capitale speculativo è aumentato. L’agilità è il suo attributo essenziale: buttandosi quando vede un’opportunità e cercando un’uscita al primo segno di guai, il capitale speculativo ha spesso trasformato una ripresa in una bolla e cicli bassi in crisi.
L’impatto strategico della globalizzazione solleva due temi importanti: ci sono industrie indispensabili per la sicurezza nazionale, nelle quali gli investimenti stranieri dovrebbero essere limitati o addirittura vietati? Quali industrie devono essere salvate dal fallimento per salvare la capacità difensiva della nazione? Il sistema internazionale si trova in una condizione paradossale. La sua prosperità dipende dal successo della globalizzazione, ma questo processo produce una dialettica che può lavorare in senso contrario alla sua aspirazione.
I manager della globalizzazione hanno poche occasioni per gestire i suoi processi politici. I manager dei processi politici hanno moventi non necessariamente coerenti con quelli dei manager economici. Questo gap va eliminato o almeno ridotto. Come spunto di riflessione offro queste proposte: Il primo imperativo è riconoscere che questi problemi sono il piccolo risvolto negativo di un grande successo e che il dibattito non dovrebbero degenerare in attacco alla sua cornice concettuale. I leader politici devono evitare - non incoraggiare - il protezionismo, che ha portato al disastro degli anni 30.
I parametri dei limiti che la sicurezza nazionale deve porre alla globalizzazione dovrebbero essere stabiliti su base nazionale anziché essere lasciati a gruppi di pressione, lobbisti e politici in campagna elettorale. E si dovrebbe decidere in base a che cosa è essenziale per la sicurezza nazionale, non in base alla volontà di proteggere le imprese dalla competizione globale.
Le istituzioni economiche mondiali devono essere all’altezza delle sfide attuali, economiche e sociali. L’annuale G8 nacque nel 1975 come incontro informale delle sei democrazie industrializzate per pianificare il loro futuro economico e sociale durante la prima crisi energetica (il Canada venne aggiunto nel 1976, la Russia nel 1998). Al primo incontro, a Rambouillet, per facilitare una discussione franca e completa ogni Paese poteva portare tre sole persone e un membro dello staff. Da allora gli incontri sono degenerati in ampie assemblee che hanno soltanto funzioni politiche.
Il G8 dovrebbe tornare al suo scopo originario, dedicandosi soprattutto ai temi che riguardano la salute a lungo termine dell’economia globale, compreso il recupero delle società lasciate indietro nella corsa alla crescita globale. In quel processo andrebbero coinvolte India, Cina e potenzialmente Brasile. Il gruppo originario delle sette democrazie industrializzate continua a incontrarsi durante i G8 a livello di ministri delle Finanze. Questo G7 andrebbe incaricato soprattutto di affrontare in modo sistematico le distorsioni interne e sociali causate dal processo di globalizzazione.
Il Fondo Monetario Internazionale, così com’è oggi, è un anacronismo. Era stato creato per affrontare le crisi derivate dai prestiti ai o dai governi. Ha cercato di adattarsi alle nuove circostanze ma troppo lentamente. Va riformato.
I prestiti che hanno prodotto la crisi economica negli Usa richiedono attenzione urgente e maggiore collaborazione internazionale. Sperperi e pratiche oscurantiste erano evidenti assai prima che la crisi esplodesse. Sono state possibili per l’invenzione di strumenti finanziari che hanno incoraggiato la speculazione e nascosto la natura degli obblighi. C’è una contraddizione interna quando a organi finanziari viene permesso di mietere profitti straordinari e gestire risorse enormi e poi, quando le condizioni cambiano, vengono dichiarati troppo grandi per essere lasciati fallire e i contribuenti devono pagarne il salvataggio. Le istituzioni finanziarie, siano banche d’investimento o hedge fund, richiedono una supervisione che protegga gli interessi dei contribuenti.
Riassumendo: se il gap tra l’ordine mondiale economico e quello politico non viene sostanzialmente ridotto, le due strutture finiranno con l’indebolirsi reciprocamente
di Henry Kissinger
Tratto da La Stampa del 2 giugno 2008
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