Susan Gunn è una bella donna, decisamente in forma. Suo marito Robert gestisce fondi di investimento. Vivono in una graziosa zona residenziale nel sud dell’Inghilterra e hanno tre figli, tutti maschi. Siamo seduti in salotto e in giro non c’è traccia di giocattoli, tanto meno di fette di pane imburrato. La stanza è moderna e immacolata; il colore dominante è giallo zuppa di pollo, che tanto piace agli architetti e alle cliniche private più esclusive.
E proprio una di queste cliniche accoglierà presto Susan e Robert, che da tanto tempo desiderano una bambina. La settimana prossima partiranno per la California per sottoporsi a una fertilizzazione in vitro e a una Pgd, ovvero a una diagnosi genetica preimpianto. Sembrano piuttosto tormentati. Non tanto per la Pgd, costosissima e invasiva, per cui sono disposti a intraprendere un mezzo viaggio intorno al mondo, ma perché non riescono a spiegarsi com’è che si sono ritrovati con tre maschietti in casa. «Robert ha sempre voluto una bambina», ci racconta Susan. «Quando abbiamo scoperto che il nostro primo figlio sarebbe stato un maschio eravamo comunque molto contenti. E ci siamo detti: il prossimo sarà femmina».
Robert aggiunge: «Abbiamo fatto la “dieta della bambina”. È durata mesi. Niente vino rosso, niente carne rossa, niente caffè. Si mangiano riso in bianco, pesce e pollo. È stato abbastanza assurdo. Un mio amico e la sua compagna avevano seguito questa dieta e alla fine gli era nata una bambina». Susan ha partorito un secondo maschio. «Ma nella mia famiglia, e in quella di Robert, a due maschi sono seguite due femmine» ci spiega Susan. «La maggior parte dei nostri amici aveva avuto due maschietti e poi una femminuccia, quindi ho pensato, abbastanza irrazionalmente: allora è così che funziona».
Invece hanno avuto un terzo figlio maschio. Ovviamente sono felicissimi. Susan però ci dice di essere stanca di passare davanti a BabyGap e vedere in vetrina quei deliziosi vestitini da bambina. Ogni volta le si stringe il cuore. «Abbiamo capito che da questa situazione non si esce senza spendere dei bei soldoni. È brutto da dire, ma è così». Robert, testa bassa e spalle curve, aggiunge: «Siamo di quelli che non si danno mai per vinti. Lavoriamo sodo per ottenere ciò che vogliamo». E così è stato anche in questo caso. Mamma e papà hanno setacciato il web e alla fine hanno trovato una clinica di Los Angeles che faceva al caso loro: The Fertility Institutes. Hanno parlato al telefono con il direttore, il dottor Jeffrey Steinberg, e hanno fissato un appuntamento. Susan ha fatto gli esami del sangue e ha iniziato il trattamento farmacologico preliminare. Presto lei e Robert partiranno, figli al seguito, alla volta di L.A. Tra raccolta degli ovociti e impianto porteranno i ragazzi a Disneyland.
La clinica di Steinberg è un’istituzione efficientissima. Il pacchetto include un piano pagamenti personalizzato, un viaggio organizzato nei minimi dettagli, con lista di ristoranti e alberghi consigliati, e un servizio di baby sitting. Per un costo totale di 25.000/30.000 dollari, a seconda dei servizi richiesti. Solo gli amici più intimi e la madre di Susan sono al corrente della cosa. Robert dice: «Ai miei non lo racconto: mia madre ne farebbe un argomento di conversazione da dinner party». E infatti il tema è stato toccato più di una volta a cena. «Una sera i genitori di Robert fanno: “Mioddio, ragazzi, avete tre maschi. Non volete provare ad avere una femmina?”», ci racconta Susan. «E poi qualcuno se ne è uscito dicendo che all’estero si può fare, e ci ha chiesto perché non prendiamo un aereo e tagliamo la testa al toro. Ci siamo dati un calcetto sotto il tavolo».
Nicola e Michael Trathen gestiscono un impero immobiliare e vivono in una lussuosissima villa di campagna appena fuori
Plymouth che, di quando in quando, affittano come location per matrimoni. L’organizzazione di matrimoni è una delle attività di Nicola. L’altra è la gestione di una clinica di chirurgia estetica specializzata in levigatura del viso e liposuzione laser. Il che ha i suoi vantaggi anche per Nicola. La signora Trathen solleva la camicetta e ci mostra una pancia piatta e soda, perfettamente abbronzata. «Non male dopo sei figli, no?», esclama raggiante. Dieci anni fa i Trathen erano nella stessa posizione in cui si trovano oggi i Gunn: dopo tre bambini desideravano una bambina. Nicola restò incinta e alla ventisettesima settimana fissò un’ecografia a pagamento per scoprire il sesso del suo quarto figlio. «Mi dissero che al 98% sarebbe stata una bambina. Io comunque decisi di non decorare di rosa la sua cameretta; optai per il giallo e il verde menta. Pensavo: non si sa mai».
E infatti per la quarta volta nacque un maschio. «Ero scioccata», confessa Nicola «ma era pur sempre il mio ometto e da subito gli ho voluto un bene dell’anima. Ho pensato: è a te che ho voluto bene per nove mesi, non a una bambina di nome Zara!». Quindi Zara diventò Adam. E Michael si sottopose a una vasectomia. «Ricordo che me ne stavo sdraiata sul letto a piangere: avevamo deciso di fermarci lì con i figli e io non ero riuscita ad avere una bambina», ci racconta Nicola. «Non è che sei insoddisfatta di quello che hai, sei traumatizzata perché non riesci a ottenere ciò che vuoi, a prescindere dal fatto che sia giusto o sbagliato. Non è un’emozione che si può controllare».
In quel momento Nicola ebbe un’epifania. «Adam aveva due mesi, era aprile. Mi sono seduta a dargli il biberon, ho acceso la tv e c’era questo documentario. Il dottor Paul Rainsbury stava parlando di selezione del genere: diceva che è possibile scegliere il sesso del tuo bambino. È stata come un’illuminazione. Ho chiamato Mike e gli ho detto: se questo non è un segno del destino!». Nonostante la vasectomia, è stato possibile prelevare un campione di sperma di Michael; Nicole ha iniziato subito la cura preliminare presso la Rainsbury Clinic di Londra. Prima si è sottoposta a un trattamento di fertilizzazione in vitro e poi è andata in Spagna per la Pgd. Dopo sette settimane ha saputo di essere incinta di due gemelle e ha subito fatto preparare la loro stanzetta: lampade personalizzate a forma delle loro iniziali, pareti rosa pallido tappezzate da un designer francese, lettino circolare su misura e carosello di api girl-style.
In Gran Bretagna non si può scegliere il sesso dei propri figli. Sul dibattito pubblico circa la sex selection aleggia lo spettro di milioni di bambine indiane e cinesi mai nate. Il censimento del 2000 ha rivelato che in Cina il rapporto maschi/femmine sotto i cinque anni è di 117 a 100. In India, dove la preferenza per i maschi è altrettanto radicata, le cose non sono molto diverse. Si teme che questo trattamento di “selezione sessuale” possa sbilanciare le proporzioni anche nel Regno Unito. L’Ente nazionale per la fertilizzazione umana e l’embriologia si è affrettato a dichiarare che questo timore è infondato: in generale le famiglie britanniche non sembrano troppo sbilanciate verso un sesso.
Secondo altri sondaggi, sembra che i caucasici abbiano una leggera predilezione per le femmine. Nicola Trathen dice di essere stata contattata da più di cento donne in cerca di consigli e la maggior parte di loro voleva una bambina. Un’altra barriera contro cui si sono scontrati i funzionari dell’Ente è un sondaggio realizzato dall’agenzia Mori: l’82% della popolazione considera ammissibile la scelta del genere solo per motivi di salute. Nel rapporto si legge che «un numero considerevole di partecipanti al sondaggio è dell’opinione che poter scegliere il sesso dei propri figli sia profondamente sbagliato in quanto interferisce con la volontà divina o con il corso della natura, considerato intrinsecamente giusto». Ma la vera patata bollente è questa: la scelta del genere non giova forse più ai genitori che ai figli? Nella relazione compilata dalll’Ente alcuni intervistati «hanno obiettato che una cosa è desiderare di avere un figlio di un determinato sesso e un’altra è adoperarsi perché il desiderio si avveri; questo tipo di intervento stravolge il rapporto tra genitore e figlio.
Rispettare il valore di individuo del discendente che verrà significa da parte dei genitori rinunciare a determinare attivamente che tipo di figlio, genere incluso, vogliono mettere al mondo». In conclusione l’Ente britannico sostiene che i benefici derivanti dalla sex selection sono «a dir poco discutibili e certamente non abbastanza consistenti da giustificare il sostegno di una pratica invisa alla stragrande maggioranza dei cittadini». L’Ente consiglia quindi di continuare a vietarla. Nel 2007 si è addirittura deciso di inasprire la legge. Fino ad allora esisteva una scappatoia. Le tecniche di selezione degli spermatozoi erano sottoposte a una severa regolamentazione solo in caso di fecondazione da donatore esterno, oggi lo sperm sorting è illegale anche in questa circostanza.
Negli USA la selezione del genere è legale in tutti gli stati. Non è possibile stabilire quante donne la pratichino, dato che si tende a non urlarlo ai quattro venti. Steinberg è un uomo corpulento e ha l’aria di un consumato mattatore. Da ormai quattordici anni lavora nel campo della diagnosi genetica preimpianto. «Da due anni a questa parte le richieste sono in fortissimo aumento», dichiara. La maggior parte delle coppie che si rivolgono a lui desiderano “bilanciare” il rapporto maschi/femmine della propria prole. Nella sua esperienza, è raro che una coppia senza figli ricorra alla Pgd. In questi casi il dr. Steinberg si muove con i piedi di piombo e consiglia una seduta al consultorio. Alcune cliniche, come il Genetics & Ivf Institute, concedono il trattamento esclusivamente alle coppie interessate al “family balancing”, ovvero alle coppie che hanno già almeno un figlio del sesso opposto. Il 90% delle famiglie cinesi che si rivolgono a Steinberg vogliono un maschio.
Il 70% dei canadesi desiderano invece una femmina, una preferenza che il dottore non si è ancora spiegato. «Gli inglesi invece sono abbastanza equilibrati. Forse con una leggerissima propensione per le femmine». Aggiunge Steinberg: «Abbiamo notato che se è la mamma a fissare il primo appuntamento, nel 70% dei casi la coppia desidera una femmina. Se è il padre, nel 90% dei casi è per un maschio». L’anno scorso Steinberg dichiarò che le sue cliniche avrebbero presto iniziato a offrire ai pazienti interessati la possibilità di scegliere anche il colore degli occhi e dei capelli, nonché la carnagione. La reazione pubblica al suo annuncio fu tutt’altro che positiva. Un mese più tardi Steinberg fece un passo indietro. «Personalmente sono molto progressista al riguardo, ma mi rendo conto che non è ancora il momento giusto». Notate quel “ancora”. Le cose cambiano, ci adattiamo a situazioni sempre nuove e costruiamo nuovi rituali. L’idea di scegliere il sesso dei nostri figli non è stata del tutto sdoganata, ma ci stiamo muovendo in quella direzione.
Il sito in-gender.com riceve ogni anno più di 10mila e-mail dal Regno Unito. Questa pagina web viene per lo più usata come confessionale da parte di donne che sostengono di essere disperate perché non riesco ad avere, a seconda dei casi, un maschietto o una femminuccia. Di solito è una femmina che desiderano. I sentimenti espressi nel forum sono spesso di tristezza mista a senso di colpa, vera e propria disperazione. In rete le mamme aprono il proprio cuore come a casa non riescono a fare con il partner o con i familiari, rivelano cose che in certi casi faticano ad ammettere anche a se stesse. I commenti che ricevono sono per lo più parole di incoraggiamento.
Il mese scorso l’utente English Rose scriveva di volere abortire se la prima ecografia le avesse rivelato che nel suo grembo nemmeno questa volta stava crescendo una femmina. Le risposte a questo sfogo non erano «Ma datti una calmata! Non è legale quello che stai per fare!». Dalle altre utenti arrivavano anzi dichiarazioni di compassione ed empatia. All’interno di queste community ciò che un tempo si taceva viene condiviso e amplificato. Un desiderio diventa una necessità e quella necessità viene poi patologizzata. Leggendo questo tipo di forum si ha l’impressione che queste donne soffrano di un qualche disturbo. E infatti, come ogni sindrome che si rispetti, anche questa si è guadagnata il suo bel acronimo: GD, che sta per Gender Disappointment (delusione riguardo al sesso del proprio figlio). In alcuni casi si parla addirittura di EGD, Extreme Gender Disappointment.
Al momento la selezione degli spermatozoi è un procedimento troppo hi-tech per poter creare un kit fai-da-te da comprare in farmacia. Comunque la legge prima o poi potrebbe cambiare. La posizione attuale dell’Ente britannico per la fertilizzazione umana e l’embriologia si muove su un terreno alquanto sdrucciolevole: non si basa su un’incrollabile obiezione morale ma sul fatto che la maggior parte delle persone non vede di buon occhio la sex selection. C’è da chiedersi se questa avversione durerà in eterno.
L’idea che poter prendere certe decisioni sia un nostro diritto inalienabile diventa col tempo sempre più solida, e così in vari aspetti della nostra vita passiamo dallo sperare che una data cosa succeda al pretendere che si avveri. Forse tra qualche anno esigeremo di poterci rivolgere al Servizio sanitario nazionale per una Pgd finalizzata alla scelta del sesso dei nostri figli. Se lo stato copre le spese per un trattamento di fertilizzazione in vitro perché la mamma x possa avere un bambino y, perché non offrire a quella mamma la possibilità di avere un xx? O un xy? Al centro di questo dibattito rimane il fatto che ogni bambino è unico, a prescindere dal genere a cui appartiene. Quando decidi di avere un figlio, devi essere aperto a questa unicità: all’interno della relazione più intima che esista dobbiamo rapportarci a una persona che all’inizio ci è del tutto sconosciuta.
C’è un prezzo da pagare per poter scegliere il sesso di tuo figlio: devi rinunciare, almeno in parte, a quell’unicità. E quando poi questo figlio nascerà, non sarà una bambina x. Sarà una Susan, oppure una Jane, un’Eleanor. O un Ted. È pomeriggio inoltrato, vado a scuola a prendere Ted, il più giovane dei miei due ragazzi. In macchina gli racconto che sto scrivendo un articolo sulle persone che scelgono il sesso dei propri figli. Mi guarda e mi fa: «Tu cosa volevi?». «Non so», gli rispondo. Invece lo so eccome. «Quando eri ancora nella mia pancia la nonna diceva che saresti stata la sorellina di Sam e avresti avuto due begli occhioni color nocciola. E invece dalla mia pancia è venuto fuori Ted!». Osservo il mio meraviglioso bambino. Capelli castani, lentiggini, qualche macchia di sugo sulla divisa, camicia fuori dai pantaloni. Sta giocherellando con la radio. Tipico: è sempre lì a maneggiare qualcosa. Mi dice: «E se avessi un altro bambino adesso?». «Beh, vorrei una bambina!». «Mhm…», fa lui. «Eh, sai, le bambine danno meno problemi». «Sarà. Ma i maschi sono più simpaaa… tici».
(Robert e Susan Gunn sono nomi di fantasia).
I segreti di una missione (sempre più) possibile.
Diagnosi genetica preimpianto
È il più invasivo e il più costoso dei trattamenti, ma anche l’unico con cui si va veramente a colpo sicuro. Prevede la fecondazione in vitro: si prelevano gli ovociti dalla madre e si fertilizzano con gli spermatozoi paterni. Tre giorni dopo viene estratta una cellula dall’embrione per esaminarne i cromosomi. Gli embrioni del sesso desiderato sono poi trasferiti nell’utero.
Selezione dello spermatozoo
Ogni spermatozoo è dotato di un cromosoma x o un cromosoma y. Quello col cromosoma x genererà una femmina, l’altro un maschio. Differenziando con dei macchinari che misurano le variazioni di dna gli spermatozoi, si è in grado di pilotare il sesso dell’embrione generato dalla fecondazione. I macchinari però hanno un margine di fallibilità che si aggira intorno al 20%.
Il vecchio metodo: Ericsson
Si tratta di una tecnica pionieristica ideata da Ronald Ericsson e basata sull’idea che lo spermatozoo col cromosoma y nuoti più velocemente. Il campione di sperma viene versato in un tubo: si suppone che il gamete che porta il cromosoma maschile arriverà alla sua estremità più rapidamente. Il campione, così “setacciato”, viene poi inserito in utero tramite inseminazione artificiale. Questo metodo però ha dato luogo solo a una serie infinita di controversie, dal momento che gli scienziati non sono stati in grado di replicare i risultati del suo ideatore.
Il metodo nuovo: la microselezione
Per separare gli spermatozoi x dagli spermatozoi y viene sfruttata la lievissima differenza delle loro dimensioni. Utilizzando una tecnica chiamata “citometria a flusso”, il campione di sperma viene marcato con un colorante fluorescente. I cromosomi x, più grandi, assorbono più sostanza e diventano più luminosi degli y. Gli spermatozoi vengono così scelti a seconda della loro brillantezza. Si tratta di un metodo ancora in fase di sperimentazione, di cui non si escludono dei rischi dovuti all’utilizzo del marcatore.
Tutte le tecniche sopraindicate in Europa sono illegali, a eccezione di alcuni casi in cui la selezione può evitare malattie ereditarie che interessano solo un particolare sesso.
Amanda Mitchison
Traduzione di Marie Claire.it
Articolo originale > The Guardian