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Chabad, gli ebrei «d’assalto»
Avvenire
15 Febbraio 2010
Non riconoscono Nostro Signore come Messia e quindi sono costretti ad inventarsene di altri (ndr)
È
senza dubbio uno dei fenomeni più importanti dell’ebraismo
contemporaneo. Sottovalutato, come accade spesso con i grandi
cambiamenti che si giocano negli stretti confini di una confessione
religiosa, senza sforare troppo in ambito profano. Si tratta di Chabad
– acronimo ebraico di Saggezza, Comprensione e Conoscenza
– il movimento degli ebrei Lubavitcher, chiamati così dal nome della
cittadina nell’attuale Russia da cui prese inizio la loro storia oltre
due secoli fa. È il gruppo chassidico divenuto, nella seconda parte del
’900, non solo il più numeroso, con oltre 200mila aderenti, ma quello
di gran lunga più dinamico e in espansione, all’insegna di una missione
ben precisa: riavvicinare all’ortodossia ebrei agnostici o non
praticanti, riportare una presenza ebraica viva in comunità ridotte al
lumicino, iniziarne di nuove là dove l’ebraismo non era mai arrivato o
quasi, diffondere – anche con l’uso assai spigliato dei mezzi di
comunicazione – la propria spiritualità.
Questo è ciò che è
avvenuto per esempio in Cina, dove Chabad è arrivato nel 2001, trovando
pressoché il vuoto; in meno di 10 anni è diventato il perno di una
comunità di 1500 anime a Shanghai, aprendo centri in altre sei città. È
ciò che è avvenuto in India, dove il nome dei Lubavitcher è salito
tristemente agli onori delle cronache perché due di loro – il rabbino
Gavriel Noach e sua moglie Rivka, oltre a 4 ospiti del centro Chabad in
cui si trovavano – sono stati uccisi negli attacchi terroristici del
2008 a Mumbai. È ciò che è avvenuto in zone estreme come la Repubblica
del Congo o nelle lande più marginali dell’America latina come il
Paraguay, in cui una minuscola comunità ebraica, data come prossima
all’estinzione all’inizio degli anni ’80, ha trovato con l’arrivo di
Chabad una nuova vita.
È avvenuto ovviamente negli Stati
Uniti, dove i Lubavitcher emigrarono per sfuggire alla persecuzione
nazista, stabilendo a Brooklyn la loro casa madre, e in altre 70
nazioni, dove sarebbero ormai circa un milione gli ebrei coinvolti
nelle attività di Chabad – scuole, opere di carità, attività editoriali
e di formazione religiosa – e in cui spesso la sua presenza è
preponderante. «Lo zelo e il tipo di missione ricordano lo slancio di
evangelizzazione dei movimenti nel post-Concilio» commenta un sociologo
cattolico, ma osservatore del mondo ebraico, come Paolo Sorbi. Il
paragone ci sta, in un certo senso, anche per quanto riguarda le
frizioni sorte negli anni tra Chabad e l’ebraismo istituzionale.
Nel
2004, a Vilnius, una contesa tra il rabbino capo Simonas Alperavicius e
i Lubavitcher portò a una misura a cui nemmeno il regime sovietico era
giunto: la chiusura dell’unica sinagoga in città. Un episodio dai
contorni simili, dove si arrivò anche alle mani e pesantemente, avvenne
a Praga nel 2005. In Russia il grande appoggio che Putin diede fin
dall’inizio della sua presidenza a questi chassidim militanti
(e al loro rabbino capo, nato a Milano, Berel Lazar) per arginare
l’influenza del Congresso ebraico russo, attorno al quale gravitavano
alcuni degli oligarchi contro cui l’apparato siloviko aveva scatenato la resa dei conti, ha lasciato strascichi pesanti nella comunità ebraica.
Difficoltà,
dissapori e tensioni, per altro pari all’entusiasmo suscitato in
moltissimi dal lavoro di Chabad, che non derivano solo da questioni di
posizionamento o di leadership. Nascono anche (o soprattutto) da una
questione dottrinale potenzialmente esplosiva: il fatto che una larga
parte di Chabad vede in Menachem Mendel Schneerson (1902-1994), che del
movimento è stato il settimo e ultimo Rebbe – titolo che designa la
somma guida spirituale nel mondo chassidico – il Messia atteso da
Israele. Non poca cosa. Una fede, questa, sulle cui origini ci sono
letture diverse, ma che è certo essersi accentuata negli ultimi anni
della vita di Schneerson, dopo la fine del comunismo sovietico e la
prima guerra del Golfo, letti come segni escatologici.
Alla
scomparsa del Rebbe, la credenza che costui fosse il salvatore atteso
non si è spenta, ma si è rimodulata nell’idea di un Rebbe che non
sarebbe in realtà morto o che sarebbe comunque destinato a tornare,
risorgendo, per il compimento dell’opera messianica. I Lubavitcher si
sono poi divisi fra mishichist, che professano esplicitamente la loro fede nel Rebbe Messia, e non mishichist,
coloro che hanno abbandonato tale credo o, secondo la lettura di un ex
esponente di Chabad come Melech Jaffe, che hanno semplicemente scelto
di tacere su questo aspetto, conservando le proprie convinzioni nel
segreto.
A far detonare un dibattito che ribolliva ormai da
anni nell’ebraismo ortodosso è stato un libro scritto nel 2001 da David
Berger, autorevole storico dell’ebraismo alla Yeshiva University di New
York, dal titolo The Rebbe, the Messiah, and the scandal of orthodox indifference
(Il Rebbe, il Messia e lo scandalo dell’indifferenza ortodossa). In
quello studio, ristampato e aggiornato nel 2008, Berger contestava tra
le altre cose, alla luce di una lunga e dotta disamina della
Tradizione, l’idea che potesse essere considerato Messia un ebreo morto
prima di aver compiuto la sua opera liberatrice. Conseguentemente
accusava Chabad di eresia o, nel migliore dei casi, di patente
contraddizione con uno dei pilastri della fede ebraica. Non solo,
Berger imputava almeno ai Lubavitcher mishichist, per la loro
fede in un Messia che muore e risorge e in una lettura di diversi passi
profetici per avvalorare tale credo, «un’erosione della distanza tra
ebraismo e cristianesimo» e il «consegnare munizioni letali alla
predicazione cristiana».
Apriti cielo. Jacob Neusner, l’ormai celebre studioso a cui ha dedicato grande attenzione anche Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret,
recensì in modo entusiastico il libro di Berger definendolo il «più
urgente uscito negli ultimi decenni» per quanto riguarda l’ebraismo,
giudizio ribadito con forza ad Avvenire a distanza dieci di
anni. Da parte Lubavitcher si parlò di un attacco fratricida e di una
scandalosa distorsione della realtà. Una discussione che è esplosa e da
allora non si è più fermata, alimentata anche da una nutrita serie
pubblicazioni sul tema, l’ultima delle quali è il libro di Elliot
Wolfson, studioso di mistica ebraica della New York University, che con
il suo Open secret (Segreto svelato) cerca di fare luce sul mistero del Rebbe e sull’esoterismo dei suoi insegnamenti.
Nel
frattempo Chabad e il mondo ortodosso si intrecciano, si osservano, si
confrontano – e un rimando a questa situazione si può incontrare a
Gerusalemme dove, esattamente di fronte al Muro del Pianto, campeggia
la grande insegna di Colel Chabad, una mensa per i bisognosi gestita
dai Lubavitcher – entrambi probabilmente consci del fatto che attorno
al Rebbe Messia si sta giocando una partita non di poco conto per il
futuro dell’ebraismo tutto.
Andrea Galli
Fonte > Avvenire.it | 15 febbraio
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