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Se Obama «scansa il cuore ebraico...»
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Se c’è una cosa insopportabile per Israele è che l’America anteponga il proprio destino a quello di Eretz Israel, che non capisca che prima della propria sicurezza gli USA debbano pensare alla sicurezza di Israele, che prima che ai propri interessi, gli americani debbano pensare a quello degli ebrei. Insomma Obama distingue gli interessi americani da quelli ebraici e rivendica la preminenza dell’interesse nazionale su quello di un piccolo Stato del Medio Oriente: un affronto! E di conseguenza gli ebrei oramai fanno un tifo da stadio per Mitt Romney, il candidato repubblicano alla presidenza USA, che per ingraziarsi l’appoggio della lobby ebraica ha accusato il presidente di avere «spinto sotto l’autobus alleati come Israele».

L’idea messianica di Obama, di un mondialismo orizzontale guidato sinarchicamente dagli USA, non tanto come superpotenza dominante, ma come sintesi più avanzata dell’Umanità nuova, che sarà un domani una sola nazione mondiale, contrasta con il messianesimo giudaico caratterizzato da un universalismo verticale noachita, in cui i popoli sono guidati da quello ebraico, che vede la Terra intera come una sorta di grande Israele, di cui a sua volta Eretz Israel è la Grande Gerusalemme, tutta Gerusalemme il Tempio ed in cui il Santo dei Santi non ha più ragione di esistere perché la shekinà, cioè la presenza di Dio, è manifesta nel compimento della promessa del ritorno del popolo eletto a Sion.

Le primavere arabe, se si sono realizzate secondo un progetto messo a punto nel secolo scorso dai tink-thank ebraici e che prevedevano di far esplodere gli Stati confinanti secondo linee di frattura etniche, tribali e confessionali, rischiano nell’interpretazione di Obama (che le ha sùbito appoggiate, al contrario di Israele) di dar vita a Stati a matrice mussulmana moderatamente fondamentalista (sul modello della Turchia di Erdogan) con cui l’America potrebbe – nel riconoscimento del loro ruolo e della loro collocazione – condividere le politiche «regionali». Ciò toglierebbe ad Israele il ruolo di unico amico degli USA, che gli consente oggi di realizzare lentamente ed inesorabilmente il progetto politico-religioso della restaurazione piena di Eretz Israel come regno messianico atteso da secoli.

Come ha scritto di recente Il Giornale «Obama snobba il voto ebraico», ma peggio ancora sono state le dichiarazioni di giovedi 30 agosto, rilasciate dal generale Martin Dempsey, presidente del Joint Chiefs of Staff, secondo cui un eventuale attacco israeliano avrebbe «chiaramente la possibilità di ritardare ma probabilmente non di distruggere il programma nucleare iraniano», aggiungendo: «Io non voglio essere complice di ciò, se (Israele) scegliere di farlo».

Dempsey poi ha stupito il suo pubblico dicendo di non essere al corrente delle intenzioni iraniane di dotarsi di un armamento nucleare e che lo stesso dicono i servizi di intelligence, aggiungendo che nel caso di attacco prematuro e preventivo all’Iran è probabile che la «coalizione internazionale» chiamata ad applicare «pressione sull’Iran» potrebbe dissolversi.

L’affermazione ha mandato su tutte le furie i vertici israeliani, che, nonostante gli attacchi cibernetici dei mesi scorsi evidentemente non sono stati in grado di fermare i progressi che l’Iran sta conseguendo nei processi di arricchimento dell’uranio.

Debka, la nota agenzia di informazioni politiche e militari vicina ad Israele e specializzata in notizie di intelligence, afferma infatti che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica avrebbe registrato un aumento del 31% di uranio iraniano arricchito al 20% nella disponibilità iraniana, con 189,4 kg rispetto ai 145 di maggio.

Di questo passo, ora che il sistema di arricchimento sembra essere stato isolato dall’attacco di possibili altri virus informatici lanciati nei mesi scorsi da Israele, la minaccia nucleare iraniana potrebbe diventare realtà il primo ottobre. «Al tasso attuale di arricchimento – scrive Debka –

Teheran avrà 250 chili di uranio arricchito al 20%, sufficienti a costruire la sua prima bomba atomica, in circa sei settimane». Sempre secondo Debka entro il 2013 le testate potrebbero essere da due a 4 e l’Iran potrebbe presto essere in grado di installare le testate sui suoi missili Shebab-3, in grado di colpire Israele. La notizia deriva dalle stime dell’Aiea, secondo le quali Teheran aveva 6,2 tonnellate di uranio scarsamente arricchito al 3,5% e appunto 145,5 chili al 20%. Ma a febbraio l’Agenzia per la sicurezza atomica aveva denunciato il fatto che l’Iran avesse triplicato la propria capacità di produrre uranio arricchito.

Peccato che l’uranio arricchito al 20% non sia sufficiente per costruire un’atomica, la quale necessita di plutonio o di uranio arricchito oltre il 90%, che si ottiene attraverso la centrifugazione ad altissima velocità, in speciali ultra-centrifughe montate in serie («a cascata»). Queste concentrano progressivamente l’isotopo 235 (buono per le bombe) separandolo dall’omologo chimico 238, sfruttando la piccolissima differenza di peso specifico tra i due. L’uranio arricchito per le testate atomiche è composto per il 97% circa di U 235 e per fare un’atomica ce ne vogliono alcune decine di chilogrammi, a meno che da questo a sua volta non si ricavi il plutonio. Ma per arricchire l’uranio in questo modo occorre farlo passare attraverso almeno 40.000 ultracentrifughe, con le quali il gas 235 viene pian piano fatto «schizzare» via, trattenendo il più pesante U 238, per passarlo poi all’ultracentrifuga successiva.

L’Iran però possiede al massimo tra 7 e 8 mila ultracentrifughe, non ha le tecnologie necessarie per costruire le altre e specie adesso sarebbe molto difficile non solo acquistarne oltre 30.000, ma anche collocarle senza che nessuno se ne accorga.

Si aggiunga che è vero che l’Iran si sarebbe dotato per l’arricchimento dell’uranio di nuove centrifughe P-2 (macchine molto più avanzate rispetto quelle precedentemente utilizzata (P-1), ma in ogni caso i tempi necessari per l’ottenimento della quantità di uranio arricchito necessario alla bomba sarebbero comunque molto lunghi.

È vero tuttavia che è anche possibile separare l’isotopo 235 con nuove tecnologie molto più sofisticate (come il laser). Quando verso la metà degli anni Novanta, il programma nucleare iraniano riprese (grazie ad un rapporto diretto e preferenziale con la Russia), fu concluso anche un protocollo segreto che fra le varie disposizioni prevedeva la costruzione di un impianto di arricchimento mediante centrifughe a gas.

Tuttavia nel biennio 2002-2003, a seguito delle ispezioni dell’Aiea arricchimento – uno per la produzione di acqua pesante e l’altro per la produzione di combustibile nucleare – sia di avere intrapreso ricerche per attività di conversione ed arricchimento di materiale radioattivo per mezzo di centrifughe e laser.

La tecnica dell’arricchimento dell’uranio al laser, già conosciuta dagli anni ‘60, ha avuto un notevole sviluppo tecnologico a metà degli anni ‘90, quando dei ricercatori australiani ne hanno perfezionato la tecnica, il cui brevetto battezzato Selce (acronimo inglese per «separazione degli isotopi per eccitazione al laser»), è stato acquistato dalla General Electrics.

Ordinando nel febbraio 2010 la produzione di uranio arricchito al 20%, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad aveva affermato che il suo Paese era oramai capace di arricchire dell’uranio utilizzando il laser.

Il laser richiederebbe impianti assai meno invasivi rispetto alle 40.000 centrifughe e quindi molto meglio in grado di essere nascosti e protetti da eventuali attacchi.

Anche se non esiste alcuna prova certa, potrebbe effettivamente essere che l’Iran abbia affiancato alla produzione ufficiale con centrifughe di uranio al 20% un piano parallelo di produzione di uranio al 95%, ottenuto con tecnologia Laser, che sarebbe in corso tanto nel sito nucleare sotterraneo di Fordow, quanto nel sito militare di Parchin, dove lo scorso 6 maggio, il direttore generale dell’Aiea, Yukiya Amano aveva chiesto di potere accedere, ottenendone un rifiuto.

Inoltre l’Iran dovrebbe entro la fine dell’anno prossimo inaugurare il nuovo reattore ad acqua pesante di Arak, che gli permetterebbe di accumulare scorte di plutonio (con cui si possono fabbricare altre testate nucleari) senza passare dall’ingombrante processo di arricchimento dell’uranio.
Stiamo naturalmente parlando di ipotesi, che cozzano sempre contro le smentite ufficiali del governo iraniano, che ha dichiarato la vocazione civile del proprio programma nucleare.

Comunque sia, probabilmente l’America sa che il programma di arricchimento dell’uranio iraniano è troppo avanzato, che un attacco all’Iran non darebbe risultati garantiti, mentre sicuramente metterebbe in ginocchio la già provata economia americana (con l’8,1% di disoccupazione).

Inoltre Obama sa che Mosca non starebbe a guardare e Pechino tanto meno. Nello staff del presidente americano, poi, circolerebbe sempre più l’idea che avere una pluralità di interlocutori con cui misurarsi sia la strategia migliore e che forse un’altra potenza nucleare nella regione sarebbe verso est (Pakistan, India ma anche Russia e Cina) non solo un pericolo, ma anche un’opportunità e verso Israele, l’unico modo per obbligarla al riconoscimento dello Stato palestinese.

Sembra proprio non sia stato un caso che nella piattaforma della convention democratica, resa nota martedì, sia stato sì ribadito che il presidente Barack Obama e il partito democratico «mantengono l’impegno incrollabile per la sicurezza di Israele», ma sia stata tolta inizialmente la definizione, che era invece contenuta nella piattaforma del 2008, secondo cui «Gerusalemme è e rimarrà la capitale di Israele».

Questa definizione è stata poi reinserita all’ultimo con un voto per acclamazione. Tuttavia quell’amnesia aveva probabilmente un significato simbolico, che ha fatto guaire di dolore Fiamma Nirestein: «L’ultimo episodio dimostra che Obama, nonostante gli ebrei americani abbiano votato per lui per il 78 per cento, non capisce, non sa, anzi scansa il cuore ebraico: esso si chiama in primis ‘Gerusalemme’; gli ebrei, unica religione, pregano voltati da quella parte, la menzionano tutti i giorni nella preghiera; quando si sposano invece di giurare fedeltà all’amato la giurano a Gerusalemme. Ma la piattaforma del partito presentata martedì durante la convention fa capire che Obama immagina come assai realistica la divisione di Gerusalemme, dato che attualmente non riconosce Gerusalemme unita come capitale di Israele, un punto vitale per la vita e la cultura stessa del mondo ebraico, ma rimanda la sua definizione secondo i desiderata del mondo arabo». (Usa 2012:piattaforma Democratici, torna Gerusalemme capitale) (Obama e gli ebrei, una Convention tra dimenticanze e propaganda)

Tutto ciò fa il paio non solo con le citate dichiarazioni del generale Martin Dempsey di giovedi, secondo cui gli Stati Uniti non si presterebbero ad essere «complici» di un attacco israeliano contro l’Iran, ma soprattutto con la conseguente decisione di ridurre drasticamente l’impegno americano nell’esercitazione militare congiunta USA-Israele «Austere Challange12» del prossimo mese. (U.S. Scales Back Military Exercise with Israel, Affecting Potential Iran Strike)

Invece dei circa 5.000 soldati americani originariamente dichiarati, il Pentagono ne invierà solo da un minimo di 1.200 a un massimo di 1.500. Arriveranno anche i Sistemi Patriot antimissile, ma non gli equipaggi per il loro funzionamento e invece di due navi da guerra con missili balistici di difesa Aegis da dislocare in acque israeliane ne arriverà solo una.

Commenta l’analista israeliano Efraim Inbar direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies presso il Bar-Ilan University: «Penso non si voglia insinuare che si sta preparando qualcosa insieme con gli israeliani contro l’Iran. Fiducia? Non ci fidiamo di loro. Non si fidano di noi. Tutte queste nozioni liberali! Anche un presidente liberal come Obama lo sa bene».

I sistemi antimissile degli Stati Uniti sono importanti perché, mentre Israele ha fatto passi da gigante nella creazione di scudi antimissile, che proteggano la sua popolazione, non ne ha abbastanza per distribuirli in tutto il territorio nazionale. Ciò rende la presenza dei Patriots e di altri sistemi antimissile americani indispensabili per limitare i danni alla popolazione.

Questo spiega bene perchè il sito filoisraeliano Debka abbia parlato, dopo le dichiarazioni del Generale Martin Dempsey, di «un messaggio ottuso da presidente degli Stati Uniti Barack Obama a Israele» e cioè «“Voi siete da soli! Se decidete di sfidarci e di andare avanti con una operazione militare contro l’Iran, vedete di arragiangiarvi senza le armi particolari degli Stati Uniti e il nostro ‘backup militare’, tra cui lo scudo antimissile”». (US disowns Israel over Iran strike: No weapons or military backup)

«Austere Challange12» era stata annunciata dal Segretario di Stato Andrew J. Shapiro nel novembre scorso come «di gran lunga la più ampia e più significativa esercitazione USA-Israele della storia», con il dichiarato obiettivo di «migliorare l’interoperabilità» tra i sistemi antimissile americani e israeliani». Gli Stati Uniti mantengono un X-band radar nel deserto israeliano del Negev, puntato verso l’Iran e collegato al sistema antimissile Arrow israeliano.

Il radar è straordinariamente potente, così sensibile da poter rilevare una palla da softball lanciata in aria da migliaia di chilometri di distanza. Ma solo gli americani sono autorizzati a vedere cosa c’è sullo schermo, una situazione che serve probabilmente per inibire qualsiasi decisione di Israele di attaccare da solo l’Iran.

Il sistema statunitense è infatti in grado di rilevare un lancio missilistico iraniano 6-7 minuti prima del radar migliore di Israele, sicchè senza questo appoggio tattico, che potrebbe salvare la vita di molti cittadini in Israele, sia dando loro più tempo per raggiungere un rifugio, sia per consentire ai loro intercettori di agganciare e distruggere un missile Shahab-3 in arrivo, l’attacco all’Iran diventerebbe più difficile.

Poi c’è un patto con Putin, che non vuole la guerra, anzi nessuna guerra nella regione, che è anche area di influenza russa. Già a marzo Obama aveva chiesto a Medvev «una mano sui missili» (da installare in Centro Europa) perché – disse Obama in un fuori-onda registrato – «questa è la mia ultima elezione, dopo avrò maggiore flessibilità».

Putin ha fatto di più: ha interrotto le forniture militari della Russia con l’Iran e la Siria, dopo la consegna delle ultime voci in cantiere e ha compiuto un altro passo verso Obama, facendo partire le navi da guerra russe dalla base siriana di Tartus e lasciando così di fatto il Mediterraneo orientale con una sola unità alla fonda.

Ma in cambio Putin ha chiesto ad Obama un impegno analogo, cioè di togliere copertura militare ad Israele e costringerlo ad abbandonare i progetti diretti a colpire l’Iran. Considerando che anche la Cina si è impegnata in questo piano di distensione e che il presidente Hu Jintao, anche lui uscente, sta cercando di usare la sua influenza per fermare il lancio del satellite che il leader ragazzino Kim Jong-un ha annunciato per il mese prossimo, sono evidenti le ragioni di estremo nervosismo che si respirano nel governo israeliano, dove non si sono ancora spente le polemiche per la presunta fuga di notizie sui dettagli del possibile attacco.

Ora la situazione è tale per cui certamente la posizione di Obama è delicatissima e pericolosissima. Se il 1 settembre l’istituto Rasmussen dava Romney al 47% e Obama al 44% e se un giorno prima per Gallup Romney stava al 46% e Obama al 47%, sempre a fine agosto la media Real Clear Politics degli ultimi 7 giorni rende evidente però come l’andamento degli ultimi sondaggi sia stato favorevole per il candidato del Partito Repubblicano, che ha continuato a guadagnare margine rispetto ad Obama e che, ad oggi, avrebbe un risicato vantaggio dello 0.3%

Ora ciò che occorre domandarsi è chi avrà il coraggio di muovere la prima pedina sulla scacchiera. Di poco avanti nei sondaggi, difficilmente Obama può cambiare idea: avventurarsi in una guerra in piena campagna elettorale darebbe la stura ad una situazione che rischia di innescare un conflitto non solo regionale, ma planetario e in ogni caso farebbe il gioco del suo avversario.

Mosca e Pechino non possono accettare rispettivamente che la loro sfera di influenza e la loro base più significativa di approvvigionamento energetico in Medio Oriente passino sotto il controllo americano. Ancor più di Mosca, la Cina ha interessi enormi e consolidati in Iran e solo nel dicembre scorso, stando a NDTV, un notiziario cinese per l’estero, il generale Zhang Zhaozhong ha dichiarato che «la Cina non esiterà a proteggere l’Iran, anche a costo della terza guerra mondiale».

A questo punto Romney non può far altro – se intende, come pare, cambiare rotta – che attendere la sua elezione a novembre, salvo che comunque fino a gennaio non ci sarebbe il suo insediamento.

Certamente poi la stabilizzazione del quadro internazionale, con un ruolo assegnato anche alla Turchia sullo scenario siriano, per sostituire Assad, ma senza sottrarre la Siria dall’orbita di influenza russa, rafforzerebbero la posizione di Obama. E se Obama vincesse le elezioni, dovrebbe restituire a Putin il favore. Insomma Israele è sotto scacco, prigioniero delle proprie ossessioni.

E Obama non pare intenzionato a farsi trascinare nel «gioco dell’Apocalisse»: ha troppe gatte da pelare sul fronte interno per potersi permettere un’altra avventura bellica all’altro capo del mondo.

Ma Israele afferma che in otto settimane oramai l’Iran sarà in possesso dell’atomica. Il tempo è strettissimo e per attaccare serve un pretesto, lo abbiamo detto molte volte e i precedenti non mancano.

Nel primo caso la campagna elettorale può essere un’eccellente occasione e, se «Servizi interni ed esteri» decidessero di «unire le forze» per punire il recalcitrante Obama, certo non mancherebbe qualche aspirante martire «islamista», disposto ad immolarsi per punire il demone americano, specie se gli fosse aperto il varco per giungere al presidente. Il precedente di Shiran Shiran, ragazzo palestinese mentalmente disturbato, che il 5 giugno 1968 «riuscì» ad intrufolarsi nel blindatissimo Hotel Ambassador di Los Angeles e uccidere a colpi di pistola il futuro presidente degli Stati Uniti, Robert Kennedy, fratello di JFK, è probabilmente un bell’esempio di «neuroprogrammazione», di cui il progetto MK-Ultra/mk-Search potrebbe essere stato a suo tempo un efficiente laboratorio.

Poi c’è la ricorrenza dell’11 settembre ove qualcuno, magari in Europa, magari nella zona più ricca dell’Europa, magari in un luogo che deve essere vendicato, potrebbe far ricomparire gli spettri del decennio passato: non dico di più, ma molti avranno già inteso. Anche qui da Pearl Habour in poi, passando per l’attacco alle Torri Gemelle la storia è prodiga di esempi.

La terza ipotesi è un incidente creato ad hoc in un braccio di mare, il Golfo Persico, dove le occasioni possibili sono moltissime: ancora il precedente della USS Liberty (la nave per la ricognizione elettronica della Marina degli Stati Uniti, attaccato dalle forze israeliane ai tempi della guerra del 1967 provocando 34 morti e 171 feriti), sta lì a dimostrare che Israele non guarda in faccia a nessuno, nemmeno al proprio alleato, quando si tratta di far trionfare le proprie ideecon la forza.

Quarta ipotesi: sperare che Obama perda. La Israel-lobby mondiale è al lavoro. A casa nostra l’ineffabile Fiamma Nirenstein manda a dire, dopo il mancato inserimento di Gerusalemme nella piattaforma della convention democratica che «è difficile che allora i democratici, che ci tengono a Gerusalemme capitale, possano votare Obama a cuor leggero. La brutta figura del presidente è il compimento di una storia quadriennale di antipatia per Israele».

E Daniel Pipies dichiara che «se Obama dovesse essere rieletto, ne seguirà il trattamento più distaccato che un presidente americano abbia mai riservato allo Stato ebraico. L’operato sterile di Obama degli ultimi tre anni e mezzo riguardo a Israele su argomenti come i palestinesi e l’Iran conduce a questa conclusione; ma porta anche ad essa quanto sappiamo della sua condotta e delle sue frequentazioni prima che fosse eletto senatore nel 2004, in particolare i suoi legami con gli antisionisti radicali. Ad esempio, nel maggio 1998, Obama ascoltava attentamente le parole di Edward Said e se ne stava tranquillamente seduto a una festa di addio organizzata nel 2003 per l’ex agente pubblicitario dell’OLP Rashid Khalidi mentre Israele era accusato di terrorismo contro i palestinesi» (al contrario, Romney è amico di Binyamin Netanyahu dal 1976).

È alquanto eloquente anche ciò che ha scritto Ali Abunimah, un estremista contrario a Israele che risiede a Chicago, sulla sua ultima conversazione avuta con Obama all’inizio del 2004, quando quest’ultimo si trovava nel bel mezzo di una corsa alle primarie democratiche per il Senato USA.

Abunimah ha scritto che Obama lo salutò calorosamente e poi aggiunse: «Ehi, mi dispiace di non aver detto più nulla sulla Palestina in questo momento, ma siamo in una dura corsa elettorale. Quando le cose si calmeranno, spero di poter essere più esplicito».

E ancora, facendo riferimento agli attacchi sferrati da Abunimah contro Israele nelle pagine del Chicago Tribune e altrove, Obama lo incoraggiava dicendo: «Continua così!». Se si colloca questo nel contesto di ciò che Obama ha detto a microfoni spenti al presidente russo Dmitry Medvedev ancora in carica nel marzo 2012 («Questa è la mia ultima elezione. E dopo la mia elezione avrò più flessibilità») e dell’antipatia mostrata pubblicamente da Obama per Netanyahu, sarebbe saggio presumere che, se Obama vincesse le presidenziali del prossimo 6 novembre, le cose «si calmeranno» per lui e finalmente potrà «essere più esplicito» sulla cosiddetta Palestina. E allora i guai per Israele avranno realmente inizio».

Parola di Daniel Pipes, l’ispiratore delle vignette satiriche su Maometto, quello che – come ricordava Maurizio Blondet in un suo articolo – per giustificare l’attacco all’Iraq, scrisse che Saddam poteva avere la bomba atomica «entro due-tre anni» salvo poi sfacciatamente ammettere che «la vera causa per cui gli USA hanno invaso l’Iraq non sono mai state le armi di distruzione di massa, né la minaccia che Saddam rappresentava per i suoi vicini (leggi Israele)… La campagna contro l’Iraq ha a che fare col mantenere gli impegni verso gli Stati Uniti o pagarne le conseguenze… Mantieni le promesse o sei finito».

Falso, come la minaccia dell’antrace, come la fialetta di Colin Powell, come il pretesto che Israele sta cercando. Se poi nonostante tutto questo lavorio della Israel-lobby Obama dovesse vincere, occorre ricordare un altro precedente e un’altra opportunità (l’America è davvero la terra delle infinite opportunità!): anche Al Gore aveva vinto le elezioni, ma il presidente eletto fu George W. Bush. The «New American Century» era iniziato.

Domenico Savino


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